I Patriots hanno perso il Super Bowl, ma non la loro grandezza

La polvere si è ben assestata dopo il grande vortice emozionale creato dalla vittoria dei Philadelphia Eagles, più che meritevoli di prendersi tutte le luci della ribalta data una fantastica storia composta da ostacoli superati con eleganza e audacia per giungere in una vetta che offre una vista mozzafiato. Tuttavia, dall’altra parte, c’è sempre una squadra che ha perso, ed il risultato finale della finalissima di domenica non può intaccare il magistrale monumento alla continuità che i New England Patriots hanno sapientemente edificato in quasi due decadi piene di football vincente.

Articolo a cura di PlayitUSA

Parliamo di diciotto anni di puro dominio, ed il termine non viene certo speso a caso. Non ne sapremmo francamente trovare un altro di maggiormente significativo per descrivere quanto fatto da Bill Belichick dal momento della sua assunzione a Foxboro, e sottolineiamo il fatto che stiamo pur sempre parlando di dati parziali, perché questi signori si stanno già preparando per tornare carichi come molle a settembre e riprovare una scalata che hanno già affrontato con successo più di chiunque altra concorrente di quest’epoca, scrivendo pagine piene di successi che hanno già garantito lo status di leggenda vivente tanto a Belichick quanto a Tom Brady.

Una sola sconfitta, seppur registrata nel più importante dei palcoscenici, non può tuttavia portare a negare l’evidenza. Belichick ha preso in mano una franchigia che non aveva mai vinto niente nella sua storia e l’ha trasformata in una dinastia, basti pensare che l’unica stagione perdente sotto la sua guida è arrivata al suo primo anno di incarico, e che da lì in poi i Patriots non si sono mai più voltati indietro. Diciassette delle diciotto stagioni con Bill in cuffia sulla linea laterale sono terminate con un bilancio vincente, quindici sono stati i campionati consecutivi nei quali New England ha terminato la regular season con un numero di vittorie uguale o maggiore a dieci (striscia attiva ancora oggi), segni di una continuità mostruosa che la franchigia ha saputo trasportare anche nei playoff, dove il carattere spietato e feroce generato dalla voglia di vincere di Tom Brady ha distrutto ogni tipo di avversario, sorretto dalla grande maestria tattica del suo capo allenatore.

Sparare a zero sui Patriots è troppo facile, godere per le loro sconfitte è inutile e poco coerente, mettersi a parlare di spionaggio industriale e palloni sgonfi fa sorridere se comparato a quanto prodotto dalla squadra in questi anni. Basta eseguire una semplice divisione, prendere le 214 vittorie ottenute sotto la guida di Belichick – playoff esclusi – e ricavarne la media per stagione ottenendone un dato che fa stropicciare gli occhi, 11.88 partite vinte all’anno. Allora si comprende perfettamente che si sta parlando del nulla più assoluto, e che certi discorsi non dovrebbero nemmeno cominciare, se non per restare dentro le mura del bar o del social network dove hanno avuto originariamente luogo, e fare la fine che meritano.

I Patriots sono 5-3 al Super Bowl, ed avrebbero potuto raggiungerlo in altre quattro occasioni dal momento che in questi anni hanno perso altrettante finali di Conference, un dato tremendo che ci fa comprendere come, in diciotto anni, la squadra abbia raggiunto almeno la semifinale assoluta in ben dodici occasioni. Sono semplici numeri, per carità, ma vanno analizzati nel loro preciso contesto, che ci suggerisce un roster di elementi perennemente soggetti ad infortuni, alle continue modifiche agli assetti delle varie formazioni fornite dalla free agency, ad errori di valutazione al Draft o nell’elargire un contratto spropositato alla superstar di turno, mosse errate che hanno indelebilmente segnato i destini di più di metà delle franchigie che attualmente compongono una Lega dove il concetto di stabilità e lungimiranza è espresso dalla minoranza.

Certo, anche Belichick ha commesso i suoi errori di valutazione, è anch’egli un essere umano con dei limiti, tuttavia, quando si vincono cinque Super Bowl in così poco tempo, non ha alcun senso stare lì ed incominciare ad intavolare discorsi che possano mettere in campo un qualsiasi tipo di critica, soprattutto quando il primo critico di sé è proprio il personaggio in questione, un perfezionista che ha sacrificato anni di buon sonno per allestire sistematicamente la miglior squadra possibile, creando coaching staff differenti ma sempre in grado di svolgere i loro compiti con il massimo della fiducia, costruendo roster che spesso hanno rifiutato contratti troppo esosi a giocatori di primo piano per non sprecare risorse e permettere di godere sempre di un’opportuna profondità in tutti i ruoli, ma anche mettendo sotto contratto i giocatori giusti in base alle necessità del momento, anche a costo di sacrificare qualche scelta alta, ricevendo in cambio una continuità di risultati impareggiabile.

Probabilmente è la consapevolezza di tutto questo impegno e sacrificio che rende ancora più amaro il sapore della sconfitta con il trofeo a due dita di distanza, perdere così fa più male del dovuto, la differenza è che ci si abitua a ricercare la colpa verso se stessi, non verso fattori esterni come comodamente si usa fare in circostanze come questa. E New England sa benissimo di dover recitare tanti mea culpa per non aver vinto, partendo dalla mancata ricezione di Brady in un trick play che se eseguito gli avrebbe permesso di percorrere una strada semi-spianata verso la meta, passando per le numerose occasioni in cui la difesa non ha fermato la conversione di un terzo down sbagliando un placcaggio o una copertura, e terminando con il costosissimo errore di protezione commesso da Shaq Mason, il gioco che ha deciso l’esito finale, un fumble che ha rovinato una prestazione offensiva fino a quel momento sostanzialmente perfetta.

I Patriots sono costantemente in alto, l’esempio da imitare per una Lega che, ad esempio, ha appena visto riempire un’altra pagina di almanacchi storici con uno 0-16, l’umiliazione più grande che possa esistere a livello sportivo, nonché chiara dimostrazione d’incapacità gestionale di un bene prezioso sia per la propria città che per l’appassionato esterno. E proprio per la loro posizione i ragazzi di Belichick sono costantemente il bersaglio dell’accusa, quella che non sa sostenere l’invidia per la magnificenza delle imprese che hanno compiuto, quella che esulta perché il Male è stato debellato e Tom Brady siede sconsolato a guardarsi attorno incredulo dopo il strip sack decisivo, più che convinto di riuscire a coronare l’ennesima rimonta della sua carriera con la stessa precisione di sempre, con la stessa cattiveria agonistica, con la stessa insaziabile voglia di vincere, solo per realizzare che il sogno era appena sfumato.

Anche se quest’anno la stampa ha provato nuovi sgambetti per cercare di destabilizzare l’ambiente, parlando spesso a vanvera della rottura definitiva del giocattolo Belichick-Brady-Kraft solo per ricevere indietro un’altra partecipazione al Super Bowl, New England ha fatto ciò che doveva senza tanto badare alle chiacchiere, e seppure sia attesa da una pausa primaverile/estiva molto impegnativa ancora non ce la sentiremmo di scommettere contro la Dinastia, sicuri che in qualche modo, tra un anno, l’argomento sarà ancora di stretta attualità.

All’epoca avranno sicuramente perso Malcolm Butler, avvolto nell’alone di mistero della sua assenza dalla partita più importante dell’anno e del possibile contributo migliorativo che avrebbe potuto fornire, ed avranno salutato Josh McDaniels e Matt Patricia, che in futuro si ripresenteranno al Gillette Stadium solo da head coach avversari.

Ci saranno parecchi cambiamenti da digerire, diverse filosofie da mettere in atto, ma tutto fa innegabilmente parte del gioco, la questione è racchiusa nel modo in cui ci si riesce ad adattare ad un nuovo corso.

Se c’è una cosa che Bill Belichick non ha assolutamente bisogno di dimostrare, è proprio questa.

Onore ai vincitori, ma anche ai vinti.